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A volte basta uno spaghetto

Chi non si vaccina rischia di doversi pagare le cure in caso di contagio Coronavirus. È una proposta lanciata qualche giorno fa e che i media hanno evidenziato. E c’è chi come me, a primo impatto ha apprezzato. Mi è bastato però il tempo di uno spaghetto con l’amico Enrico Pozzi, che la mia posizione è cambiata. Enrico mi ha fatto notare che se questa cosa fosse giusta, lo dovrebbe essere altrettanto nel caso di chi si fuma due pacchi di sigarette al giorno e poi incide sui costi della Sanità pubblica per curarsi dal cancro ai polmoni.

Osservazione interessante, che ha messo in crisi le mie certezze. Mi chiedo: ma allora chi ha lanciato quella proposta, non l’ha ragionata abbastanza?

Certo, il tempo di uno spaghetto è assai lungo rispetto a quello che passa da una pulsione emotiva alla pubblicazione di un tweet. Ma forse chi lancia proposte dall’alto di un incarico pubblico, o chi rilascia intervista a un media, dovrebbe per forza permettersi almeno il tempo di un confronto a voce alta con qualcuno.

Siamo sempre lì: il tema è la capacità di governare le pulsioni, dare predominanza alla riflessione, lavorare attraverso il confronto e la condivisione.

Però tutto sommato quella proposta come principio non è affatto male… a patto che vada estesa su tutto.

D’altronde le assicurazioni ce lo insegnano: una cosa è essere coinvolti in un incidente stradale mentre viaggi ai duecento all’ora, un’altra se ti capita mentre rispetti i limiti. 

È il famoso concorso di colpa. Andavi forte? Ne paghi le conseguenze… anche se è stato quell’altro a non rispettare lo stop.

Quindi: come facciamo con i fumatori accaniti e i conseguenti malanni ai polmoni? E con quei malati di cuore che malgrado tutto, ogni fine pasto il caffè lo prendono super corretto?

E con quei diabetici che mangiano come vogliono, “tanto la sera mi sparo l’insulina”?

Va forse costruito un nuovo paradigma nel rapporto tra causa, effetto e responsabilità. 

Il principio potrebbe essere questo: io non ti vieto niente, semmai ti consiglio e ti do le linee guida… e tu puoi fare come ti pare. Però le conseguenze negative le paghi tu. 

Ma anche ragionando solo tra me, capisco che questa linea comporta forti cortocircuiti. Sarebbe come dire: compra pure il kalashnikov, ma se poi lo usi…

Questo paradosso mi spiazza e mi mette in crisi e più in là di così, non riesco ad andare: i limiti mie, ho in parte imparato a conoscerli.

Il tema forte è comunque il senso di responsabilità… il quale, affiancato al buon senso e alla condivisione prima dell’agire, produrrebbe un mix micidiale, probabilmente capace di sconfiggere qualsiasi virus.

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere di Rimini e visibile a questo link.

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La carta igienica bugiarda e la discoteca per uno solo

Ci avevo creduto anch’io, ma non è vero: la carta igienica non è il bene di consumo più saccheggiato durante la quarantena.

L’ha spiegato bene il solito Paolo Attivissimo in un suo articolo pubblicato sul portale Zeus, che vi riassumo in breve.

Sono due le sue controdeduzioni.

La prima è che la sparizione della carta igienica sia in realtà un fenomeno mediatico. 

Riceviamo la maggior parte delle informazioni in forma visiva e quindi un oggetto ingombrante e vistoso come un pacco di carta igienica spicca di più rispetto a una scatoletta di tonno, sia nel carrello della spesa pieno, sia come spazio vuoto sugli scaffali“.

E in più c’è l’esito mediatico che non conta poco: il consumatore con il pacco famiglia da trentadue rotoli sottobraccio è sicuramente più fotogenico di un cliente con otto scatoline di dentifricio.

E poi vogliamo mettere l’aspetto quasi ridicolo e assurdo dell’incetta di carta igienica rispetto a una più sensata scorta di zucchero o detersivo?

Quindi una fake news? Non proprio, ma quasi…

Seconda controdeduzione, più concreta.

Dovendo stare in casa invece di andare a scuola o al lavoro, la conseguenza è che si consuma più carta igienica nel proprio domicilio e molta meno nei luoghi pubblici. Questo causerebbe un effettivo aumento della necessità di carta igienica per uso domestico e il continuo svuotamento degli scaffali. Il rischio di rottura di stock è per forza quotidiano: una cosa è consegnare confezioni per uso casalingo, un’altra fornire pallet per scuole, uffici, stadi, aeroporti, stazioni, autogrill, ristoranti, etc..

Quindi, o per uno, o per entrambi i motivi sopra elencati, “possiamo smettere di dare la colpa di queste momentanee penurie alla stupidità del genere umano“. Paolo Attivissimo conclude con stile, ammettendo però che la tesi della stupidità dava sicuramente più soddisfazione.

È chiaro che quando non capiamo le cose, invece di ammettere la nostra ignoranza, giochiamo la carta della stupidità degli altri.

Spesso però le cose che non capiamo le accettiamo comunque, soprattutto quando sono contestualizzate all’interno del recipiente simbolico dell’arte. Almeno questo succede a me: mi faccio piccolo piccolo (con l’arte non si può fare la figura degli ignorantoni) e provo almeno a indagare.

Così mi è successo per un’iniziativa della Biennale Val Gardena, dove a Ortisei ha aperto una piccola discoteca per una persona alla volta. No, mi dispiace: non è stata pensata in ottica Covid19. Si tratta di una piccolissima baita in legno, che presenta l’insegna Disco For One. È un omaggio a Giorgio Moroder, nato da quelle parti. Se l’iniziativa non avesse la sua bella narrazione e il suo messaggio simbolico, sarebbe una bella str….ta. Invece, per come è stata presentata, risulta affascinante. Infatti, tutto quello che è uscito sui media (finora non tanto, a dire il vero) non ha presenta cortocircuiti e di questo ne stanno beneficiando tutti i soggetti coinvolti.

Un po’ come è successo per Achille Lauro a San Remo, dove se si sbagliava una sola virgola, quello che usciva poteva scatenare l’effetto baraccone. E invece, come è stato evidente, tutto è andato per il meglio e il brand Gucci si è portato a casa un’esposizione mediatica pazzesca e di alta qualità. Lì, l’operazione è stata una sorta di geniale hackeraggio, dove l’idea è stata supportata dalla migliore attività di ufficio stampa dai tempi del lancio del telefono cellulare in occasione di Italia 90. 

È proprio vero: il linguaggio dell’arte ci aiuta a crescere e ad allargare i nostri orizzonti.

Ma come faremo nell’immediato post Coronoavirus con l’arte, i suoi eventi, le sue esposizioni, i suoi spettacoli? 

C’è stata a Stoccolma la provocazione della presentazione di un’opera di Rossini davanti a un singolo spettatore, scelto attraverso un sorteggio, il tutto organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura. Stessa cosa l’ha proposta il Teatro dell’Opera e del Balletto di Perm, in Russia. Una sorta di “Opera for One” invece del “Disco for One” di cui abbiamo parlato. 

Ok, quelle notizia sono uscite in tutto il mondo, ma non sono state presentate come possibili soluzioni… ci mancherebbe altro.

Mi ha invece affascinato l’idea di far esplorare ad alcune compagnie teatrali l’ipotesi dei cosiddetti Peep Show. I quartieri a luci rosse delle capitali nord europee presentano questi spettacolini, per cui chi entra assiste appartato in singole stanze e pertugi. Per il teatro potrebbe essere una strada percorribile, al fine di garantire le esigenze di distanza sociale. Lo riportava il sito Exibart, che sottolineava di quanto fosse palloso il teatro in video, che non poteva essere quindi un’alternativa da prendere in considerazione. 

La questione non è di poco conto. Il teatro e l’arte a tutti i livelli, hanno il faticoso e affascinante ruolo di interpretare il nostro presente: è da lì che molti si aspettano di ricevere una nuova interpretazione e messa a terra del prezioso concetto di comunità.

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere di Romagna ed è visibile a questo link.

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Quale hotel per la mia prossima vacanza?

QCome dice Roberta Milano, esperta di viaggi e turismo, il turismo è a uno stop e ha due problemi: cosa fare ADESSO e cosa fare DOPO.

Concetto semplice e chiaro.

E a proposito di semplicità e chiarezza, questo è il momento di porsi domande altrettanto semplici e chiare al riguardo.

Ecco quelle che sono venute in mente a me…

Riuscirò ad andare in vacanza?

Quali caratteristiche dovrà avere l’hotel della mia prossima vacanza?

E in quale luogo deciderò di andare?

Se il mio business è il turismo, adesso come posso impegnare questo periodo di quarantena? 

Le varie risposte le sto ricavando sia dagli esperti, sia dagli operatori turistici stessi.

Quindi…

Ci sarà domanda di mercato di vacanze? E quanta?

Chi è bravo a rispondere, deve per forza tenere conto delle difficoltà economiche, della mancanza di ferie, ma anche dell’aspetto psicologico.

L’altro giorno Forbes ha pubblicato un sondaggio dove alla domanda “Qual è la prima cosa che farai quando sarà finita la quarantena“, il 45% degli italiani ha risposto: “Aspetterò diversi giorni prima di fare qualcosa“.

Per dovere di cronaca, il 20,5% ha risposto “farò una festa” (privata a casa con amici stretti), il 19,3% “andrò al ristorante“, il 12,4% “viaggerò in Italia” e il 3% “viaggerò all’estero“.

Altra domanda semplice e diretta: che caratteristica deve avere l’hotel della mia prossima vacanza?

Le indicazioni su come andare incontro alle nuove esigenze che richiede la lotta alla pandemia, hanno a che fare la modifica delle nostre abitudini e un nuovo necessario approccio alla quotidianità, almeno nella prima fase del dopo virus.

A questi cambiamenti ovviamente si dovrà adeguare il servizio in hotel.

Al riguardo, in questi giorni ogni albergatore al mondo si sta ponendo la questione di come rendere l’accoglienza più adeguata possibile alle problematiche del Covid-19, evitando forme di contatto fisico.

Gli esperti hanno cominciato a dare indicazioni mostrando che le soluzioni ci sono.

Prima di tutto va sensibilizzato il personale attraverso una formazione comportamentale (quindi non semplice teoria, ma guida pratica e fisica di come muoversi),  al fine di evitare qualunque gestualità che implichi contatto diretto con i clienti. 

Va modificata la procedura di sbarazzo e rimpiazzo del tavolo, per cui sostituire e igienizzare sempre e tutto… e magari prediligere l’usa&getta, ovviamente con materiali in linea con la sostenibilità ambientale.

Diminuire il numero di tavoli rispettando le giuste distanze, garantendo un numero adeguato di persone in sala.

Quindi, conseguentemente, prolungare gli orari di apertura del ristorante, allungando l’orario del servizio e organizzando turni, dove il cliente avrà la possibilità di scegliere l’orario a lui più consono e gli operatori sapranno gestire orari e presenze per evitare assembramenti.  

Cancellare i servizi buffet e self service e ritornare al “servito”, oppure gestire il servizio come se si fosse al banco di una gastronomia.

Creare proposte di menù veloci magari da far scegliere al cliente, al fine di limitare il tempo di permanenza del cliente in sala.

Incentivare il pasto in camera, magari dotando ogni camera di un tavolo adeguato.

Aumentare il numero di divise per ogni addetto, per garantire il cambio ogni giorno.

Gestire ordini e fornitori in modo da ridurre i giorni di consegna, organizzando le modalità di contatto all’arrivo delle merci, nonché lo smaltimento sia degli indumenti del personale addetto al ricevimento, sia degli imballaggi.

E altre cose che sarà importante e doveroso fare…

Ecco, nella scelta dell’hotel credo proprio che riterrò fondamentali queste informazioni.

C’è ancora chi dice che il mestiere dell’albergatore (e del ristoratore) sia una passeggiata?

C’è anche un’altra questione: queste azioni che ho citato non solo vanno fatte, ma vanno raccontate.

Se il consumatore turista non riceve queste informazioni, non si riesce a trasmettere il messaggio di fiducia.

Il punto è proprio qui: veicolare fiducia e credibilità. 

Anche qui le cose stanno cambiando…

Fino a ieri, quando si trattava di “raccontare”, si utilizzava il termine storytelling.

Lo storytelling, di cui ad esempio è maestro Oscar Farinetti, ci permette di far affacciare il consumatore alle emozioni e quindi di posizionare il nostro prodotto all’interno di quegli scenari valoriali che fanno comodo in termini di acquisizione di appeal e quote di mercato.

Bene, quella roba lì è forse finita.

Gli esperti ci stanno dicendo che dallo storytelling è necessario passare alla storydoing.

Attenzione: qui non si tratta semplicemente di una nuova definizione autoreferenziale (quindi autolesionista) del marketing.

Storydoing è un termine tecnico per definire l’indirizzo in cui proprio in questa fase è bene far virare la narrazione.

In poche parole: attraverso lo storydoing ti dico quello che faccio nel concreto, ti spiego come mi sto muovendo e come sto gestendo la mia quotidianità per offrirti quello che ti sto promettendo.

Quindi, non voli pindarici ed emozioni che poi non trovano riscontro nel concreto.

Schema grafico by Future Concept Lab (Francesco Morace sempre sul pezzo)

Grazie alla narrazione storydoing, in tempo reale ti faccio vedere cosa sto facendo per te, che sei o potrai diventare un mio cliente.

Ha detto bene l’altra sera Paolo Iabichino nella diretta Instagram che organizza con Giovanni Boccia Artieri: la soglia di sensibilità dei consumatori si è molto alzata e quello che sta succedendo è come un setaccio che porta a galla solo le cose che contano.

Lo stiamo vedendo tutti i giorni: questa profonda crisi ci fa apprezzare le persone che fanno cose che contano, piuttosto che coloro che sanno solo raccontare, ma che poi nel concreto non fanno nulla.

Altra domanda semplice e chiara: quale territorio eventualmente sceglierò per la mia vacanza, che sia di una settimana o un veloce short break?

Sicuramente non il luogo più bello, ma quello di cui mi fiderò di più.

E qui entra in gioco lo Storydoing di cui abbiamo sopra accennato, che diventerà acceleratore strategico nella creazione di fiducia verso il consumatore.

Se quindi potremo permetterci qualche giorno di vacanza, c’è caso che la scelta possa ricadere su località fino a ieri lontanissime dai nostri pensieri, ma magari a pochi kilometri da noi.

Sta a vedere che nel breve, la nostra Riviera diventerà il luogo di vacanza di tutti i romagnoli…

Infine, c’è il tema di come sarebbe opportuno che gli operatori turistici impegnassero adesso il proprio tempo. Le cose giuste da fare potrebbero essere tre.

1) Cominciare a predisporre la messa in sicurezza delle proprie aziende, attendendo o cercando di prevedere i vari decreti che verranno sicuramente emanati al riguardo e di cui se ne sta parlando da settimane in vari webinar e dirette social di settore (o verticali, come direbbero gli esperti). 

2) Fare formazione, sia per sé, sia per i propri dipendenti e collaboratori (chiedete alla riminese Teamwork le richieste e adesioni che arrivano…).

3) Creare spirito di comunità tra colleghi per scambiarsi opinioni e creare condivisione.

Su quest’ultimo punto è bene soffermarsi.

Gli ultimi due decenni ci hanno confermato, come non mai, che l’innovazione passa per la condivisione.

Sicuramente, il prossimo futuro dimostrerà che la condivisione sarà lo strumento più efficace per la nostra necessaria rinascita.

Quindi parliamoci, sentiamoci, confrontiamoci…

L’articolo è uscito anche sul Corriere di Romagna.

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Il complottismo? Una figata…

Il mio rapporto con il complottismo ha a che fare con la curiosità… e la creatività.

Il fenomeno mi interessa.

Ogni tanto sull’argomento parlano gli esperti… e a me piace prendere appunti.

I concetti che ho imparato sono secondo me interessanti.

In primis, tutto questo complottismo è una caricatura della razionalità. Abbiamo infatti bisogno di creare l’idea del complotto per muoverci all’interno di una complessità che non capiamo.

Il nostro cervello è costretto a fabbricare il falso proprio per difendersi… e difenderci. Quindi non è una questione di essere scemi: abbiamo bisogno di cercare di sopravvivere.

Il complottismo è figlio di questo bisogno e (cosa che credevo) non è una sorta di patologia. D’altronde ci rendiamo tutti conto che abbiamo l’abitudine di costruire continui ricordi falsi: è una nostra necessità.

Modifichiamo i nostri ricordi per fare in modo che il nostro passato non sia contraddittorio con la nostra attuale personalità, evitando così di entrare in un cortocircuito, nei casi in cui la personalità che ci siamo costruiti non combaci con le vicende che abbiamo vissuto.

La conclusione di questi ragionamenti/appunti è affascinante: il falso è stato creato per farci stare bene.

La storia è piena di falsi non solo a causa del complottismo, ma anche per aiutarci a capire meglio.

Abbiamo bisogno infatti anche di avere delle visioni romantiche di quello che è successo… quindi romanziamo il nostro passato per nostra comodità e beneficio.

Nel film del 1995 Braveheart di Mel Gibson, vincitore di 5 Oscar, si narrano le epiche vicende del popolo scozzese nel XIII secolo.

Le necessità romantiche hanno costretto l’autore ad alcuni cortocircuiti storici che hanno messo in fermento molti critici. Infatti, con il lodevole obiettivo di dare enfasi al senso di nazionalismo scozzese, sono stati inseriti nel film due elementi improbabili: il kilt e le cornamuse, che al tempo ancora non esistevano.

Sempre a proposito di miti da sfatare, tirerei in ballo i Cosacchi.

I Cosacchi sono quella popolazione che, per vicissitudini storiche, si è trovata a far parte prima del Grande Impero sotto la Zar russo, poi sotto il Comunismo di Lenin e Stalin.

Negli anni della Guerra Fredda, era famosa la frase “Se passa il Comunismo, ci troveremo i Cosacchi ad abbeverare i loro cavalli nella Fontana di Trevi” (frase, sembra, attribuibile a San Giovanni Bosco). La metafora, azzeccatissima sul piano della comunicazione, presenta anche qui un cortocircuito storico.

Nel libro “Le favole e la politica“, Stefano Pivato ci ricorda che i Cosacchi sono sempre stati nemici della Russia Comunista e sono stati vittime degli stermini etnici stalinisti. 

Hanno addirittura stretto alleanza con Hitler nel tentativo di invasione nazista in Russia. Malgrado tutto questo, il mito dei Cosacchi è stato usato da Stalin per alimentare il mito del coraggio e il mito rurale della grande Russia.

Quindi in sintesi, “mentre il regime sovietico procedeva alla loro eliminazione, sul piano propagandistico continuava a esaltarne il mito romantico“.

Dai, lo sappiamo: le fake news non sono un’invenzione dei nostri giorni.

E a proposito di questi nostri giorni, il complottismo attorno al Coronavirus si sta nutrendo alla grande.

Ce n’è di tutto e di più. Ma è sempre stato così. E dalla creazione di Internet in poi, la proliferazione è stata esponenziale.

Anni fa mi incuriosì molto lo scenario occulto/esoterico della Tav in Val di Susa.

Provate a fare una ricerca sul web e scoprirete, casomai non lo sapeste già, che la TAV è frutto di un disegno malefico, per colpire a morte quello che è il maggiore chakra (nodo energetico) del nostro continente.

La teoria è semplice: attraverso la costruzione di tunnel, le forze del male vogliono inserire barriere di piombo e amianto con il fine di interrompere la linea retta energetica del bene che dall’Abbazia di Mont Saint Michel passa dall’Abbazia di Val Susa, dal Santuario di Monte Sant’Angelo sul Gargano, per arrivare (almeno così mi sembra…) a Santa Sofia a Istanbul .

Ma la Val di Susa non è arida di sorprese.

Accanto all’Abbazia si erge per oltre i mille metri il mitico Musimè, un vulcano a riposo, luogo di alieni, lupi mannari e leggende misteriose (tra cui l’esilio di Erode), che gli è valso l’ambito titolo di montagna più misteriosa d’Italia. D’altronde, non c’è da stupirsi: siamo appena a 20 km da Torino, città del triangolo della magia nera, con Lione e Ginevra.

Vogliamo poi parlare dell’11 Settembre, dove le teorie esoteriche della lotta del bene contro le forze del male hanno invaso anche i media generalisti?Ricordate le foto delle Torri Gemelle dove dalle fiamme si intravvedevano i peggio demoni?

Il complottismo esoterico non ha risparmiato neanche il marketing. Gli esempi non li faccio, ma vi consiglio di “cazzeggiare” in rete per scoprire che c’è chi riconduce marchi prestigiosi o alla venerazione per Saturno, divinità crudele e oscura, o alla simbologia massonica, etc.

Per me che da ragazzo ho letto due volte “Il Mattino dei Maghi“, tutto questo è massima goduria.

Beh, che c’è di male? 

C’è chi guarda gli horror, chi segue Gomorra… 

Invece a me piace il realismo fantastico.

Visibile anche sul sito del Corriere di Rimini a questo link.

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Fermi tutti: questo è un esperimento sociale

L’altro giorno, su indicazione di mio figlio, ho assistito a una diretta Instagram del professore Giovanni Boccia Artieri, di cui mi pregio essere amico.

La diretta era una sorta di dialogo intervista con Paolo Iabichino, creativo, pubblicitario, scrittore e genio del nostro tempo.

Iabichino l’ho conosciuto grazie a “Scripta Volant“, divertente e istruttivo saggio uscito nel 2017.

Dal dialogo tra i due sono emerse varie cose interessanti e, c’era da prevederlo, diverse parole d’ordine.

In primis, almeno per me, BONIFICARE L’IMMAGINARIO.

Si è approdati a questo dall’analisi del calo di aggressività e rancore nei post di queste ultime settimane.

Il trauma sta contribuendo a questo.

“Un ecosistema complesso come il nostro, ha bisogno di un trauma” per provare a fare ordine in un mondo pieno (troppo pieno) di contraddizioni.

Parole sante.

Ultimamente su Sky ho visto Another Happy Day, film del 2011 premiato al Sundance.

La storia vede come protagonista un diciasettenne un po’ deviato che si trova costretto a partecipare a un matrimonio.

Il suo contesto familiare è super incasinato e particolarmente teso.

A un certo punto il ragazzo afferma alla madre, una fantastica Ellen Barkin, che non potrà essere certo un matrimonio a contribuire a rasserenare i rapporti, ma piuttosto un funerale.

E così sarà, alla fine del film, con la morte del nonno.

Il trauma, appunto.

In questi giorni ho finalmente preso in mano “Possiamo salvare il mondo prima di cena“, il best seller di Jonathan Safran Foer.

Il teorema di Foer è semplice…

Abbiamo compromesso il pianeta e qualunque cosa facciamo, è troppo tardi… e ritiene che la crisi climatica è direttamente proporzionale alla nostra capacità di credere.

Una delle genialate del libro è il parallelismo con la vicenda dello sterminio del popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale.

C’è un passaggio stupendo, quando un testimone degli accadimenti in Europa, dopo un viaggio pericolosissimo, arrivò a Washington nel 43 dove incontrò uno dei massimi giuristi americani, anch’esso ebreo, tale Felix Frankfurter.

Frankfurter, allibito, non mise in dubbio la veridicità dei fatti, ma ammise la propria incapacità di credere a quella verità.

Ovvero: non aveva abbastanza elementi da rimanere emotivamente scosso.

E qui arriva la sentenza di Foer: per mobilitare le persone occorre che l’argomento diventi una questione emotiva.

Sono in molti che hanno acquisito la cognizione che il nostro standard di vita non è compatibile con la sostenibilità del pianeta.

Io sono uno di questi.

Eppure, come afferma Foer, sto facendo ben poco per colmare i gap.

Perché?

Perché non sono abbastanza coinvolto emotivamente.

Il Covid 19 è un acceleratore emotivo.

E questa cosa – parole di Iabichino e Boccia Artieri – ci sta permettendo di riconsiderare le priorità.

La paura (il dolore, la sofferenza, le perdite) che ci sta generando il Coronavirus ci ha fatto toccare con mano le nostre fragilità.

Ci fa capire ogni minuto l’importanza delle cose che credevamo scontate.

A proposito di cose scontate…

L’altro giorno – non ricordo su quale sito – è stato lanciato un gioco, che cita come segue: hanno scoperto un nuovo numero tra il sette e l’otto e tocca a voi disegnarlo.

Pazzesco! Difficilissimo!

Non avevo mai pensato che inventare un numero fosse così disarmante: ti trovi davanti un vuoto cognitivo.

Non sai dove cominciare, come impostare, dove arrivare…

Almeno questo è l’effetto che mi è arrivato.

Eppure, cosa c’è di più scontato dei numeri?

Quindi dicevamo: bonificare l’immaginario.

Ovvero, rigenerare la nostra idea di mondo.

È questa l’eredità che ci consegna il Coronavirus?

Se così fosse, siamo davvero di fronte a un esperimento sociale.

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Visionari, premonizioni, oroscopi

Da una parte Bill Gates, dall’altra l’astrologo Branko.

Del primo si parla in questo periodo, di quando si è presentato sul palco di un Ted Talk per i classici 8 minuti che questo genere di eventi concedono per portare una propria testimonianza. Era il 2015 ed entrò in scena spingendo un fusto metallico, quelli tipici utilizzati per contenere beni di prima necessità, nel timore di un attacco nucleare, affermando: “Il pericolo è un altro” e parlando di catastrofi possibili per il futuro, invece del solito fungo atomico, mostrò l’immagine di un virus.

Poi l’astrologo Branko…

Lo sapevate? Sembra lui sapesse.

L’ha riportato Dagospia, il sito dell’amico Roberto D’Agostino. Ecco qua il link.

Branko aveva previsto la catastrofe Coronavirus.

Ecco cosa disse l’astrologo nella prefazione al suo oroscopo 2020, scritta a inizio dicembre: “Il quadro astrale dell’anno prossimo si è verificato prima della seconda guerra mondiale. Molte volte non crederemo a quanto vedranno i nostri occhi o sentiranno le nostre orecchie. Serpeggerà una nuova e mai provata agitazione il primo giorno di primavera. Sarà una prova di resistenza per tutti noi, ma poi…“.

Pazzesco, vero?

Allora ho digitato su Google “Nostradamus Coronavirus”… e ho trovato al primo posto una news dell’ADNkronos, l’autorevole agenzia stampa internazionale che riporta la dichiarazione di Renucio Boscolo, numerologo e scrittore, considerato tra i più esperti studiosi delle profezie del veggente cinquecentesco.

L’emergenza mondiale del Coronavirus era stata prevista da Nostradamus. In alcuni suoi versi si fa esplicito riferimento a quanto sta avvenendo“.

In particolare, “nella sestina 11-30 si parla chiaramente di un medico e di un grande male che porterà infermità da costa a costa“…

Infine: “Ci sono troppi ignoranti di mestiere che fanno i ciechi e sordi“, aggiunge Boscolo, che si autodefinisce “sentinella e discepolo di Nostradamus”, puntando il dito contro coloro “che si appellano a quartine distorte che nulla hanno a che fare con la determinante precisione di questi versi specifici“.

Vabbè…

E Ronald Reagan?

È risaputo che Ronald e Nancy Reagan seguivano regolarmente l’oroscopo e relativi consigli, al punto che varie volte la data di alcuni loro viaggi è stata cambiata per evitare la cattiva sorte. Il Presidente ha negato in varie occasioni la veridicità di questa notizia: “Posso assicurare che nessuna decisione da me presa viene dal cielo“. Ma l’argomento è poi diventò così serio che la Casa Bianca fece anche intervenire il suo portavoce: “Il Presidente non consulta un astrologo“. Ma la verità era un’altra.

Con l’elezione di Reagan alla Casa Bianca, Nancy prese l’abitudine di telefonare sempre più spesso a Joan Quigley, l’astrologa californiana poi definita l’eminenza grigia della Casa Bianca. Quando poi l’astrologa le mostrò che le stelle avevano previsto l’attentato contro il presidente del marzo 81, la First Lady cominciò a interpellarla ossessivamente su tutto. Seguendo i consigli della Quigley, Reagan scelse il giorno in cui dichiarare la sua ricandidatura alla presidenza, in che giorno tenere determinate conferenze stampa, quando partire o tornare da un viaggio. Nancy consegnò addirittura al capogabinetto un calendario da rispettare: 

  • 20 gennaio, niente fuori dalla Casa Bianca, possibile attentato; 
  • 20-26 febbraio, fare molta attenzione; 
  • 7-14 marzo, brutto periodo; 
  • 12-19 marzo, niente viaggi; 
  • 21-28 aprile, stare a casa…

E via di seguito. 

Reagan teneva a sua volta un calendario in ufficio, segnando con tre colori differenti i giorni buoni, i cattivi e quelli così così per le attività del Presidente, in base all’oroscopo fornito dalla Quigley.

A questo punto non si può non parlare di lei, Sylvia Bowne, la scrittrice, veggente e medium, che in un libro pubblicato nel 2008, End of a days, predisse: “Entro il 2020 gireremo con mascherine e guanti per via di un’epidemia di polmonite“.

A pagina 210 della versione originale in inglese si legge: “Entro il 2020 diventerà prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma a causa di una epidemia di una grave malattia simile alla polmonite, che attaccherà sia i polmoni sia i canali bronchiali e che sarà refrattaria a ogni tipo di cura. Tale patologia sarà particolarmente sconcertante perché, dopo aver provocato un inverno di panico assoluto, quasi in maniera più sconcertante della malattia stessa improvvisamente svanirà con la stessa velocità con cui è arrivata, tornerà all’attacco nuovamente dopo dieci anni, e poi scomparirà completamente“.

La notizia è da settimane sul web e la riprende anche il Fatto Quotidiano: Ecco il link.

Non male.

Il quotidiano cazzeggio in rete, spesso ci obbliga a districarci tra i vari complottismi: in primis quelli sempre di gran voga, ovvero quello Giudaico Massonico e quello del Nuovo Ordine Mondiale, con Rothschild nei posti di comando.

E poi è un attimo arrivare all’esoterismo, che, se sei in vena buona, ti diventa affascinante.

Avete mai letto la teoria per cui il marchio di Nike è un omaggio a Saturno?

Ma i chiaroveggenti?

Loro, invece, ce li dobbiamo andare a cercare.

La ricerca in rete ci mostra un quadro veramente ampio e molto variegato: in questo contesto ci troviamo, ad esempio, che Merlino, i Maya e Nostradamus giocano nello stesso campionato di Papa Giovanni e le sue profezie… e districarsi è un bel casino.

Un umile consiglio?

Direi di lasciare perdere…

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Se il virus fosse l’antivirus

E se questo virus fosse l’antivirus?

L’emergenza globale del coronavirus – proporzionata o sproporzionata che sia – ha innescato vari effetti, alcuni dei quali potrebbero essere considerati in maniera… diciamo originale.

Il teorema è il seguente…

Nel caso fossimo convinti che il modus vivendi che il mondo sta adottando all’insegna dello sviluppo e della modernità sia controproducente per il benessere dell’umanità, allora il coronavirus può essere – provocatoriamente – visto come un amaro, ma necessario antidoto.

Se ci facciamo caso, in questi ultimi giorni abbiamo avuto modo di toccare con mano che l’argomento salute ha messo in quattro e quattr’otto in secondo piano tutte quelle che sono le priorità che fanno girare il mondo, come la finanza e l’economia.

Attraverso scelte e decisioni concrete, nazionali e transnazionali, si sta condizionando l’economia globale in maniera importante, forse drammatica.

Di botto, il mondo ha ribaltato la scala delle priorità, ridimensionando – e non di poco – tutte quelle argomentazioni che fino a poco fa erano in cima ai nostri pensieri. 

Come dire: ora c’è altro di più importante e vitale.

E in questo contesto, come per incanto, ci troviamo nella posizione di dover rallentare, fermarci… e magari riflettere.

Riflettere sui soliti temi di sempre, come la sostenibilità, i corretti stili di vita, la prevenzione… ma anche su temi “nuovi”, come la gestione dell’informazione, la credibilità delle fonti, etc.

Prima, a inizio del testo, ho parlato di antivirus.

Se il nostro modello e stile di vita per alcuni è vissuto come un “virus” da debellare, o quantomeno da ridimensionare, il coronavirus ha tutte le carte in regola per rappresentare provocatoriamente l’antivirus.

Al di là dei complottismi (per carità), delle sovraemergenze mediatiche, dei cortocircuiti sanitari, la vicenda che stiamo vivendo giorno per giorno (anzi, ora per ora), ci consegna un’umanità debole, ma in grado di decidere per il bene di tutti.

Certo, è un mix di paura e buon senso quello che sta facendo fermare il mondo, con l’aggiunta di un’ancora acerba dimestichezza verso il real-time mediatico/informativo.

Ma è indubbio che questa cosa avrà il potere di lasciare un segno nelle nostre coscienze, che ognuno – fortunatamente – sarà libero di interpretare come crede.

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