Stamane mi sono svegliato e ho avuto la brillante idea di costruire uno schemino in grado di contribuire a fare chiarezza sulle strategie che sta adottando il Governo, in merito alle procedure sociali da adottare durante questa pandemia.
Sto facendo fatica a districarmi tra le varie critiche che sta ricevendo il Governo, che secondo me sta procedendo con buon senso. Ma del mio feeling verso l’individuazione del miglior buon senso, non mi fido sempre molto.
Per questo motivo ho provato a realizzare uno schema che mi aiutasse a applicare la logica.
Eccolo qui… spero possa essere di aiuto anche ad altri.
Qui non è questione di look, o di essere fighetti. Il posizionamento di immagine è una cosa seria. Ha a che fare con le logiche sofisticate (non nel senso di fighette, ma nel senso di complesse) del brand.
Per dirla come ce l’hanno insegnato i grandi del marketing, brand è il lavoro che fa una marca nella testa del cliente. Perché mentre un prodotto si fa in fabbrica, il brand si costruisce nella mente del cliente.
Quando si tratta di costruire una Ferrari, non basta progettare e assemblare qualità. Occorre affiancare anche una personalità. Tant’è che una Ferrari ti dà godimento sia che la guidi, sia che la tieni in garage. Così come un Rolex ti dà gusto al polso anche nel caso le lancette siano ferme. Questo perché non abbiamo acquistato semplicemente un prodotto, ma un feeling.
Fare in modo che un marchio sia nel cosiddetto Top of Mind, significa essere il primo link rispetto a una suggestione. Ad esempio, fin dagli anni 80, Volvo ha lavorato affinché la prima risposta alla domanda “indicami un’auto sicura“, la risposta fosse proprio Volvo. E il lavoro è consistito nel creare un prodotto realmente sicuro e più sicuro degli altri, ma anche nell’impostare questa idea nella testa di noi potenziali clienti.
Bene… Adesso immergiamoci in quello che nella testa delle persone è rimasto dopo il bombardamento mediatico di quei plexiglass in spiaggia. Credo che il risultato sia questo: a partire dal 7 aprile, quando la notizia è cominciata ad uscire, la nuova cartolina della Romagna sia diventata quella. E malgrado tutte le smentite (anche autorevoli e ben motivate) che si tratti di un’idea sbagliata, inopportuna, impraticabile, scomoda, economicamente sconveniente, peggiorativa, etc, sui media (giornali, web, social, televisioni e radio… quindi non solo internet) c’è ancora qualcuno che costruisce rimandi e link a questa ipotesi.
Qui adesso bisogna agire.
L’appello è alle APT, alle DMC, alla Regione e ai nostri Comuni tutti. Controbilanciamo e sostituiamo quella malsana cartolina del nostro territorio il prima possibile.
La fase delle dichiarazioni, delle controdeduzioni e dei ragionamenti è finita: ora iniziamo la fase della ricostruzione dell’immagine. Ora bisogna lavorare per scardinare quel visual infetto, sostituendolo con un’immagine diversa, onesta e vera, che sia rappresentativa del miglior feeling che possiamo essere in grado di offrire.
Nella testa di chi ha incamerato il visual delle spiagge al plexiglass è arrivata una suggestione lontana dai bisogni attuali. Già era poco vincente l’immagine della nostra spiaggia colma di turisti, con gli ombrelloni troppo vicini e la gente accalcata. Tant’è che Rimini si è voluta dotare di una progettualità nuova per il suo waterfront. Ma ora più che mai, in fase di ripresa post Covid19, il desiderio di naturalità, autenticità è il fronte da perseguire, anche per andare incontro alle esigenze, sia amministrative che psicologiche, del distanziamento sociale (sarebbe stato meglio definirlo distanziamento fisico, ma vabbè…).
rendering del progetto Parco del Mare di Rimini
Ricordiamoci sempre che quando acquistiamo un prodotto (che sia un vestito o una vacanza) in realtà acquistiamo la versione migliore di noi stessi. Questo perché, nella società che ci siamo costruiti, siamo abituati grazie anche (ripeto “anche”) alle merci – sia materiali come un’auto, sia immateriali come una vacanza – a trovare scampoli di felicità e certezze identitarie.
Proviamo a fare lo “spiegone”…
Gli psicologi e sociologi studiosi della pubblicità, ci stanno dicendo che in realtà il compito della pubblicità è sempre stato quello di farci disinnamorare di noi stessi.
Attenzione, il discorso si fa interessante…
La pubblicità, nel mostrarci con sapienza nuove merci, ci fa capire che senza quel prodotto non siamo all’altezza e ci incute un senso di perdita. Questa cosa ha a che fare con il cervello primitivo, quello che fa partire le reazioni di pancia. ma tutto si risolve facilmente: per riappropriarci dell’amore verso noi stessi, basta l’acquisto di quella merce. In sintesi, il prezzo della felicità equivale a quello del cartellino appeso alla merce. E tutto questo processo ricomincia da capo ogni giorno, davanti a ogni vetrina, ogni giornale, ogni device…
Quindi acquistiamo continuamente con l’illusione di migliorare noi stessi. Attenzione… non stiamo parlando solo di Ferrari o Rolex, o di vacanze in yacht a Formentera o un intervento di chirurgia estetica. Questo processo investe tutto. Compreso l’acquisto dell’ennesima maglietta in super svendita, del nuovo guinzaglio per il cane, della nuova custodia per lo smartphone comprata “dal cinese”.
In questo complesso contesto, giusto o sbagliato che sia, l’acquisto di una vacanza c’è dentro fino al collo.
Bene: la cartolina con il plexiglass non ci aiuta, anzi…
Quindi non rimane altro che distribuire nuove cartoline. Nuove cartoline che sappiano essere vere e credibili, capaci di esprimere le nuove esigenze di autenticità e che siano espressione credibile dei valori del nostro territorio.
L’appello di queste righe non è puntato a far sì che il lavoro sia svolto bene, per carità: le nostre task force sul turismo in questi anni hanno saputo confezionare bene la nostra offerta.
L’appello sta nel velocizzare questa opera di riposizionamento.
Bisogna agire subito nel modificare la cartolina del plexiglass, in modo che quell’argomento venga sostituito e abbandonato, e quella deleteria suggestione (che non meritiamo) sia cancellata.
Come? A questo ci penseranno gli esperti. L’importante è che succeda da domani. Anzi, da stasera.
Sennò questa fase due, per noi sarà un due di picche.
Prima abbiamo vissuto la fase dell’incredulità, poi dello sgomento.
A seguire c’è stata quella della resistenza e della retorica.
E siamo arrivati a oggi, dove deve per forza partire la fase che chiamerei “epurata”.
È la fase concreta, il momento della messa a terra delle cose da fare.
Serve quindi buon senso, ragionevolezza e una volontà epurata da tutto quello che in questo momento non serve.
Questo ragionamento torna particolarmente utile se affrontiamo l’argomento della futura ripresa del settore della ristorazione.
Dice bene Rino Mini, imprenditore e manager, nonché ristoratore: “Se i ristoranti non avranno gli stessi coperti di prima, saltano in aria. Succederà per molti e si salverà solo chi ha le spalle ben coperte. Dobbiamo evitarlo a tutti i costi“. Poche parole, ma chiare. Mini sa bene che la ristorazione è un driver strategico territoriale. Il nostro territorio vanta un’offerta ampia, varia e ben diffusa. Per noi è un forte vantaggio: siamo destinazione anche per questo. Le saracinesche chiuse non fanno aumentare gli incassi a chi rimane: se l’offerta di un territorio perde i pezzi, l’appeal cala.
Quindi in gioco c’è la sorte di lavoratori e imprenditori, ma anche l’immagine di tutta una serie di territori, come anche il nostro, vocati alla qualità della ristorazione, dove convivono sapientemente innovazione e richiami alle tradizioni.
Nel concreto, quello che c’è da fare è presto detto: le amministrazioni devono concedere ai ristoratori tutti gli spazi all’aperto disponibili per la realizzazione di dehors esterni, in modo che si possano ampliare gli spazi di somministrazione.
L’obiettivo? Compensare il necessario “taglio” dei tavoli utile a garantire le distanze di sicurezza tra i clienti che i nuovi provvedimenti comporteranno.
Il tutto da concretizzare con tempistiche veloci, meglio se velocissime, in modo che gli imprenditori abbiano modo di organizzarsi, per essere pronti il giorno stesso in cui la riapertura sarà possibile.
Quindi…
I Comuni prendano in mano la situazione, come in diverse occasioni hanno dimostrato di poter fare e mettano come priorità anche il fare sistema tra loro.
La Sovrintendenza intervenga con modalità adeguate all’emergenza (per carità: nessun incitamento all’anarchia, ma una richiamo al buon senso).
Le categorie economiche facciano in modo che i tavoli operativi siano veloci e diretti, senza quindi vetrine e retoriche.
Gli imprenditori ragionino in ottica di sistema una volta per tutte.
E i cittadini? A tal proposito mi ricordo di quel macellaio riminese intervistato in piena emergenza mucillagini dell’89, che dichiarò di non essere toccato dal problema, in quanto i suoi clienti non erano turisti, evidenziando la sua inconsapevolezza nel dedurre che probabilmente almeno 7 dei suoi 10 clienti acquistavano le sue bistecche con i soldi guadagnati dalla loro attività turistica.
Estate 1989: il Presidente dell’Agenzia del Turismo Primo Grassi mentre beve un bicchiere di acqua di mare davanti ai fotografi, sfidando la peste delle alghe.
Quindi che tutti facciano la loro parte.
Non ci sono molti altri discorsi da fare.
Partiamo da qua.
E una volta avute le certezze adeguate, partire con l’operatività.
Il tutto affiancato da un’adeguata attività di comunicazione.
E su questo, i nostri Comuni non hanno nulla da imparare.
Let’s roll!
L’articolo è anche pubblicato sul sito del Corriere di Romagna: ecco il link.
Ci avevo creduto anch’io, ma non è vero: la carta igienica non è il bene di consumo più saccheggiato durante la quarantena.
L’ha spiegato bene il solito Paolo Attivissimo in un suo articolo pubblicato sul portale Zeus, che vi riassumo in breve.
Sono due le sue controdeduzioni.
La prima è che la sparizione della carta igienica sia in realtà un fenomeno mediatico.
“Riceviamo la maggior parte delle informazioni in forma visiva e quindi un oggetto ingombrante e vistoso come un pacco di carta igienica spicca di più rispetto a una scatoletta di tonno, sia nel carrello della spesa pieno, sia come spazio vuoto sugli scaffali“.
E in più c’è l’esito mediatico che non conta poco: il consumatore con il pacco famiglia da trentadue rotoli sottobraccio è sicuramente più fotogenico di un cliente con otto scatoline di dentifricio.
E poi vogliamo mettere l’aspetto quasi ridicolo e assurdo dell’incetta di carta igienica rispetto a una più sensata scorta di zucchero o detersivo?
Quindi una fake news? Non proprio, ma quasi…
Seconda controdeduzione, più concreta.
Dovendo stare in casa invece di andare a scuola o al lavoro, la conseguenza è che si consuma più carta igienica nel proprio domicilio e molta meno nei luoghi pubblici. Questo causerebbe un effettivo aumento della necessità di carta igienica per uso domestico e il continuo svuotamento degli scaffali. Il rischio di rottura di stock è per forza quotidiano: una cosa è consegnare confezioni per uso casalingo, un’altra fornire pallet per scuole, uffici, stadi, aeroporti, stazioni, autogrill, ristoranti, etc..
Quindi, o per uno, o per entrambi i motivi sopra elencati, “possiamo smettere di dare la colpa di queste momentanee penurie alla stupidità del genere umano“. Paolo Attivissimo conclude con stile, ammettendo però che la tesi della stupidità dava sicuramente più soddisfazione.
È chiaro che quando non capiamo le cose, invece di ammettere la nostra ignoranza, giochiamo la carta della stupidità degli altri.
Spesso però le cose che non capiamo le accettiamo comunque, soprattutto quando sono contestualizzate all’interno del recipiente simbolico dell’arte. Almeno questo succede a me: mi faccio piccolo piccolo (con l’arte non si può fare la figura degli ignorantoni) e provo almeno a indagare.
Così mi è successo per un’iniziativa della Biennale Val Gardena, dove a Ortisei ha aperto una piccola discoteca per una persona alla volta. No, mi dispiace: non è stata pensata in ottica Covid19. Si tratta di una piccolissima baita in legno, che presenta l’insegna Disco For One. È un omaggio a Giorgio Moroder, nato da quelle parti. Se l’iniziativa non avesse la sua bella narrazione e il suo messaggio simbolico, sarebbe una bella str….ta. Invece, per come è stata presentata, risulta affascinante. Infatti, tutto quello che è uscito sui media (finora non tanto, a dire il vero) non ha presenta cortocircuiti e di questo ne stanno beneficiando tutti i soggetti coinvolti.
Un po’ come è successo per Achille Lauro a San Remo, dove se si sbagliava una sola virgola, quello che usciva poteva scatenare l’effetto baraccone. E invece, come è stato evidente, tutto è andato per il meglio e il brand Gucci si è portato a casa un’esposizione mediatica pazzesca e di alta qualità. Lì, l’operazione è stata una sorta di geniale hackeraggio, dove l’idea è stata supportata dalla migliore attività di ufficio stampa dai tempi del lancio del telefono cellulare in occasione di Italia 90.
È proprio vero: il linguaggio dell’arte ci aiuta a crescere e ad allargare i nostri orizzonti.
Ma come faremo nell’immediato post Coronoavirus con l’arte, i suoi eventi, le sue esposizioni, i suoi spettacoli?
Ok, quelle notizia sono uscite in tutto il mondo, ma non sono state presentate come possibili soluzioni… ci mancherebbe altro.
Mi ha invece affascinato l’idea di far esplorare ad alcune compagnie teatrali l’ipotesi dei cosiddetti Peep Show. I quartieri a luci rosse delle capitali nord europee presentano questi spettacolini, per cui chi entra assiste appartato in singole stanze e pertugi. Per il teatro potrebbe essere una strada percorribile, al fine di garantire le esigenze di distanza sociale. Lo riportava il sito Exibart, che sottolineava di quanto fosse palloso il teatro in video, che non poteva essere quindi un’alternativa da prendere in considerazione.
La questione non è di poco conto. Il teatro e l’arte a tutti i livelli, hanno il faticoso e affascinante ruolo di interpretare il nostro presente: è da lì che molti si aspettano di ricevere una nuova interpretazione e messa a terra del prezioso concetto di comunità.
QCome dice Roberta Milano, esperta di viaggi e turismo, il turismo è a uno stop e ha due problemi: cosa fare ADESSO e cosa fare DOPO.
Concetto semplice e chiaro.
E a proposito di semplicità e chiarezza, questo è il momento di porsi domande altrettanto semplici e chiare al riguardo.
Ecco quelle che sono venute in mente a me…
Riuscirò ad andare in vacanza?
Quali caratteristiche dovrà avere l’hotel della mia prossima vacanza?
E in quale luogo deciderò di andare?
Se il mio business è il turismo, adesso come posso impegnare questo periodo di quarantena?
Le varie risposte le sto ricavando sia dagli esperti, sia dagli operatori turistici stessi.
Quindi…
Ci sarà domanda di mercato di vacanze? E quanta?
Chi è bravo a rispondere, deve per forza tenere conto delle difficoltà economiche, della mancanza di ferie, ma anche dell’aspetto psicologico.
L’altro giorno Forbes ha pubblicato un sondaggio dove alla domanda “Qual è la prima cosa che farai quando sarà finita la quarantena“, il 45% degli italiani ha risposto: “Aspetterò diversi giorni prima di fare qualcosa“.
Per dovere di cronaca, il 20,5% ha risposto “farò una festa” (privata a casa con amici stretti), il 19,3% “andrò al ristorante“, il 12,4% “viaggerò in Italia” e il 3% “viaggerò all’estero“.
Altra domanda semplice e diretta: che caratteristica deve avere l’hotel della mia prossima vacanza?
Le indicazioni su come andare incontro alle nuove esigenze che richiede la lotta alla pandemia, hanno a che fare la modifica delle nostre abitudini e un nuovo necessario approccio alla quotidianità, almeno nella prima fase del dopo virus.
A questi cambiamenti ovviamente si dovrà adeguare il servizio in hotel.
Al riguardo, in questi giorni ogni albergatore al mondo si sta ponendo la questione di come rendere l’accoglienza più adeguata possibile alle problematiche del Covid-19, evitando forme di contatto fisico.
Gli esperti hanno cominciato a dare indicazioni mostrando che le soluzioni ci sono.
Prima di tutto va sensibilizzato il personale attraverso una formazione comportamentale (quindi non semplice teoria, ma guida pratica e fisica di come muoversi), al fine di evitare qualunque gestualità che implichi contatto diretto con i clienti.
Va modificata la procedura di sbarazzo e rimpiazzo del tavolo, per cui sostituire e igienizzare sempre e tutto… e magari prediligere l’usa&getta, ovviamente con materiali in linea con la sostenibilità ambientale.
Diminuire il numero di tavoli rispettando le giuste distanze, garantendo un numero adeguato di persone in sala.
Quindi, conseguentemente, prolungare gli orari di apertura del ristorante, allungando l’orario del servizio e organizzando turni, dove il cliente avrà la possibilità di scegliere l’orario a lui più consono e gli operatori sapranno gestire orari e presenze per evitare assembramenti.
Cancellare i servizi buffet e self service e ritornare al “servito”, oppure gestire il servizio come se si fosse al banco di una gastronomia.
Creare proposte di menù veloci magari da far scegliere al cliente, al fine di limitare il tempo di permanenza del cliente in sala.
Incentivare il pasto in camera, magari dotando ogni camera di un tavolo adeguato.
Aumentare il numero di divise per ogni addetto, per garantire il cambio ogni giorno.
Gestire ordini e fornitori in modo da ridurre i giorni di consegna, organizzando le modalità di contatto all’arrivo delle merci, nonché lo smaltimento sia degli indumenti del personale addetto al ricevimento, sia degli imballaggi.
E altre cose che sarà importante e doveroso fare…
Ecco, nella scelta dell’hotel credo proprio che riterrò fondamentali queste informazioni.
C’è ancora chi dice che il mestiere dell’albergatore (e del ristoratore) sia una passeggiata?
C’è anche un’altra questione: queste azioni che ho citato non solo vanno fatte, ma vanno raccontate.
Se il consumatore turista non riceve queste informazioni, non si riesce a trasmettere il messaggio di fiducia.
Il punto è proprio qui: veicolare fiducia e credibilità.
Anche qui le cose stanno cambiando…
Fino a ieri, quando si trattava di “raccontare”, si utilizzava il termine storytelling.
Lo storytelling, di cui ad esempio è maestro Oscar Farinetti, ci permette di far affacciare il consumatore alle emozioni e quindi di posizionare il nostro prodotto all’interno di quegli scenari valoriali che fanno comodo in termini di acquisizione di appeal e quote di mercato.
Bene, quella roba lì è forse finita.
Gli esperti ci stanno dicendo che dallo storytelling è necessario passare alla storydoing.
Attenzione: qui non si tratta semplicemente di una nuova definizione autoreferenziale (quindi autolesionista) del marketing.
Storydoing è un termine tecnico per definire l’indirizzo in cui proprio in questa fase è bene far virare la narrazione.
In poche parole: attraverso lo storydoing ti dico quello che faccio nel concreto, ti spiego come mi sto muovendo e come sto gestendo la mia quotidianità per offrirti quello che ti sto promettendo.
Quindi, non voli pindarici ed emozioni che poi non trovano riscontro nel concreto.
Schema grafico by Future Concept Lab (Francesco Morace sempre sul pezzo)
Grazie alla narrazione storydoing, in tempo reale ti faccio vedere cosa sto facendo per te, che sei o potrai diventare un mio cliente.
Ha detto bene l’altra sera Paolo Iabichino nella diretta Instagram che organizza con Giovanni Boccia Artieri: la soglia di sensibilità dei consumatori si è molto alzata e quello che sta succedendo è come un setaccio che porta a galla solo le cose che contano.
Lo stiamo vedendo tutti i giorni: questa profonda crisi ci fa apprezzare le persone che fanno cose che contano, piuttosto che coloro che sanno solo raccontare, ma che poi nel concreto non fanno nulla.
Altra domanda semplice e chiara: quale territorio eventualmente sceglierò per la mia vacanza, che sia di una settimana o un veloce short break?
Sicuramente non il luogo più bello, ma quello di cui mi fiderò di più.
E qui entra in gioco lo Storydoing di cui abbiamo sopra accennato, che diventerà acceleratore strategico nella creazione di fiducia verso il consumatore.
Se quindi potremo permetterci qualche giorno di vacanza, c’è caso che la scelta possa ricadere su località fino a ieri lontanissime dai nostri pensieri, ma magari a pochi kilometri da noi.
Sta a vedere che nel breve, la nostra Riviera diventerà il luogo di vacanza di tutti i romagnoli…
Infine, c’è il tema di come sarebbe opportuno che gli operatori turistici impegnassero adesso il proprio tempo. Le cose giuste da fare potrebbero essere tre.
1) Cominciare a predisporre la messa in sicurezza delle proprie aziende, attendendo o cercando di prevedere i vari decreti che verranno sicuramente emanati al riguardo e di cui se ne sta parlando da settimane in vari webinar e dirette social di settore (o verticali, come direbbero gli esperti).
2) Fare formazione, sia per sé, sia per i propri dipendenti e collaboratori (chiedete alla riminese Teamwork le richieste e adesioni che arrivano…).
3) Creare spirito di comunità tra colleghi per scambiarsi opinioni e creare condivisione.
Su quest’ultimo punto è bene soffermarsi.
Gli ultimi due decenni ci hanno confermato, come non mai, che l’innovazione passa per la condivisione.
Sicuramente, il prossimo futuro dimostrerà che la condivisione sarà lo strumento più efficace per la nostra necessaria rinascita.
Il discorso della Regina Elisabetta di ieri ha avuto come obiettivo (voluto?) di proiettare l’attuale popolo inglese nel mito.
Ecco il passaggio chiave del suo discorso: “Spero che nei prossimi anni tutti potranno essere orgogliosi di come hanno risposto a questa sfida. E coloro che verranno dopo di noi diranno che i britannici di questa generazione sono stati più forti di qualsiasi altro, che le qualità dell’autodisciplina, della cortese determinazione e della comprensione reciproca ancora caratterizzano questo Paese”.