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La Twitter Revolution non esiste?

Ci troviamo spesso ad avere a che fare con parole nuove, capaci di esprimere concetti che prima non conoscevamo.

Il termine post-verità (parola dell’anno per l’Oxford Dixionary) non è scappato fuori per caso.

L’elezione di Trump e la fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Euro, hanno portato moltissimi esperti ad affermare che sono cambiati i paradigmi, i filtri, i metodi con cui avviene la persuasione.

 

Un bellissimo articolo di Fabio Chiusi su L’Espresso del 27 novembre scorso, parla di una disciplina che sta vacillando, in quanto un evento ne ha appena riscritto i confini: l’evento è l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, mentre la disciplina è lo studio della propaganda.

L’articolo è ricco di citazioni, ad esempio Castronovo, docente della University of Wisconsin-Madison: “L’elezione di Trump ha cambiato il modo in cui pensavamo circolasse l’informazione, come le persone comunicano, ma anche come processano e diffondono la propaganda… è un drammatico campanello d’allarme per molti studiosi di comunicazione politica e retorica“.

Il mondo dei media è impegnato a chiedersi se Trump è alla Casa Bianca per colpa dei social network, delle notizie false che vi circolano, attraverso la viralità di video e “memi“, portandoci a quella cosa chiamata post-verità.

Ecco una efficace spiegazione di post-verità: quando i fatti oggettivi contribuiscono meno alla formazione dell’opinione pubblica rispetto agli appelli emotivi e alle credenze personali.

Il termine post-truth si dice che sia apparso la prima volta nel 1992 sul magazine The Nation, in cui il drammaturgo serbo-americano Steve Tesich faceva riferimento allo scandalo Iran-Contra di qualche anno prima e ai traffici illegali di armi tra gli Stati Uniti e l’Iran.

Facciamo due esempi di post-verità, legati alle presidenziali americane.

I social network ad un certo punto hanno diffuso la notizia che Hillary Clinton avesse venduto le armi all’Isis. La notizia riportava sedicenti (false) fonti da Wikileaks (i famosi file resi illegalmente ufficiali da Assange).

Sempre nei confronti di Hillary Clinton, è stata clamorosa la Cospirazione del Ping Pong Comet, la pizzeria di Washington che, secondo una fake news, era al centro di una rete internazionale di pedofilia riconducibile alla candidata repubblicana e al suo ex capo campagna John Podesta. Il loro scambio di email con il proprietario della pizzeria per organizzare una raccolta fondi, diventò nel giro di pochi giorni la prova di un’organizzazione criminale con risvolti quasi satanisti. E per poco ci scappava una strage (un giovane padre giustiziere, è entrato un giorno in pizzeria, sparando armato di mitra).

Bene, ecco cosa si stanno chiedendo gli studiosi di comunicazione: quali conseguenze hanno generato queste false informazioni? Quanto sono state strategiche a favore di Trump? Quale può essere una strategia efficace per contrastare fake del genere da parte di chi li subisce?

Un altro probabile esempio attuale?

La diffusione della meningite è una causa delle migrazioni delle popolazioni africane…

Il rapporto tra comunicazione, strategie e falsi contenuti è sempre stato alla base del lavoro di chi si occupa di propaganda.

Harold Lasswell già nel 1941, parlava di un mondo in cui l’opinione pubblica affronta con sospetto ogni fonte di informazione, convincendosi che non ha senso cercare il vero negli affari pubblici.

Negli anni 20, era stato Walter Lippmann, giornalista e poi padre degli studi moderni sulla propaganda, a coniare la definizione fabbricare il consenso.

In sintesi, ecco come la pensava Lippmann… ed è perfettamente attuale oggi:

  • siamo nell’era del sovraccarico informativo e dell’economia dell’attenzione.
  • nel mondo ci sono troppe informazioni e l’uomo vi fa fronte, per natura, attraverso i pregiudizi
  • ma poi ci pensano i media a dare una forma a informazioni e contenuti.

 

Quindi sono i media a colmare la distanza necessaria tra l’evento e il pubblico… sono i media che rendono possibile la propaganda:

  • i media svolgono una funzione di filtro.

 

Cos’è dunque successo con Trump?

Fabio Chiusi cita il filosofo sloveno Slavoj Žižek che afferma: “La fabbrica del consenso si è spezzata“.

Anche qui, ecco una sintesi del pensiero di Žižek:

  • nel nostro ecosistema informativo, i media perdono autorevolezza
  • chiunque può diventare un media grazie a Facebook, Twitter, YouTube…
  • quindi la distanza tra l’evento e il pubblico si azzera.

Ovvero, il filtro dei media non serve più:

  • ciascuno ha il proprio filtro, che si nasconde sotto forma di un algoritmo, vuoi sia di Google, o di Facebook, etc…

Qual è quindi oggi lo scenario?

Ora gli Stati Uniti si trovano a un momento importante, in cui la macchina che costruisce il consenso si è rotta:

  • rotti i partiti tradizionali, di cui Trump rappresenta la negazione…
  • rotti i media, che lui e i suoi detestano…
  • rotte le rappresentanze sociali… rotto il futuro… rotta la democrazia, che non interessa a oltre due terzi dei Millennials americani.

 

L’elezione di Trump ci ha ancora una volta mostrato che esiste una realtà diversa da quella che ci mostrano i media.

Questa realtà a volte riaffiora.

Qualcuno si ricorda della maggioranza silenziosa che fece vincere le elezioni a Nixon?

Bene, quella realtà Trump l’ha fatta uscire fuori ancora una volta.

Importante quello che dice Mike Cernovich, il maestro dei memi pro Trump: “Se tutto è narrazione, allora c’è bisogno di alternative alla narrazione dominante“.

L’articolo su L’Espresso è proprio interessante…

Chiusi scrive che la propaganda, fino a oggi, non era materia di scienziati, ma di artigiani.

Ma oggi viviamo nell’era dei Big Data e della profilazione totale e quando parliamo di propaganda, sempre più intendiamo numeri, correlazioni, dati.

Si contano gli accessi, i like, le condivisioni, le pagine viste…

E questo è un lavoro di scienziati…

 

Ma ragionando solo di numeri, si può rischiare di sbagliare qualche analisi.

Grazie alla Primavera Araba del 2011 (definita da più parti come la Twitter Revolution), i social media venivano generalmente considerati come promotori di democrazia…

Quindi non di nuovi autoritarismi…

E qui l’articolo di Chiusi pone una domanda interessantissima: adesso come la mettiamo con Trump? Com’è quindi possibile che la Twitter Revolution abbia premiato proprio lui?

La conclusione di Chiusi non mi trova d’accordo, in quanto afferma che entrambe le retoriche sono fallaci.

Quindi, secondo lui, è falso che 5 anni fa sia stato Twitter a provocare rivolte democratiche, così come è falso oggi affermarlo per Trump.

Io penso che i social network siano uno strumento e vince chi meglio li usa.

È chiaro che i contenuti populisti nei social network trovano un’autostrada… ma non solo quelli, come ha appunto dimostrato la Primavera Araba.

Che i social network siano uno strumento per il populismo è una verità, ma è un’affermazione assai limitata… e anch’essa populista.

11 gennaio 2017

 

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