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Non è tutto Populismo

È da un bel po’ che utilizziamo costantemente il termine populismo.

Prima grazie a Berlusconi, la Lega Nord e Le Pen… poi grazie a Grillo, Salvini, Fabrage e la Marine le Pen… poi adesso Trump e la Brexit…

Ma quand’è che un partito, un attore politico o una proposta politica possono essere chiaramente e inequivocabilmente etichettati con l’aggettivo populista?

La domanda, tra i tanti, se l’è posta Diego Ceccobelli, ricercatore in Comunicazione Politica presso la Scuola Normale Superiore, che ha pubblicato le sue considerazioni sul sito valigiablu.it (il gancio per me è stato un post del sociologo Alberto Abruzzese).

Ceccobelli prima è partito dalla definizione di populismo, ovvero “un’ideologia che considera la società divisa tra: da una parte le persone oneste, dall’altra le elite corrotte”.

Questa ideologia ritiene che la politica debba essere un’espressione della volontà del popolo.

Poi Ceccobelli ci ha fatto capire che con il termine populismo, noi erroneamente intendiamo un po’ troppe cose…

Primo errore: non è corretto confondere personalizzazione con populismo.

Ad esempio, la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi e l’aver creato un partito legato strettamente alla sua persona, non significa populismo.

Secondo errore: non è corretto confondere Politica Pop con populismo.

Le interviste di Berlusconi, Renzi o Salvini sui settimanali di gossip?

Oppure le partecipazioni di politici al Processo di Aldo Biscardi?

Non si tratta di populismo, anche se sono modalità assai distaccate da uno stile comunicativo istituzionale.

Così come la famosa intervista di Mario Monti alle Invasioni Barbariche del 2015 su La7, in cui sorseggiò una birra e “adottò” il cagnolino Empty…

Certo, la politica si è data al Pop, ma non è populismo.

Terzo errore: non è corretto affermare che tutti i nuovi partiti popolari siano populisti.

Negli ultimi 20-25 anni, sia in Italia che all’estero, l’avanzata di nuovi partiti ci porta ad associarli al populismo.

Nello stesso bollirone, sono stati infilati Forza Italia, la Lega Nord, il Movimento 5 Stelle, Podemos in Spagna, lo UKIP in Gran Bretagna, l’Alternative für Deutschland in Germania… Partiti differenti, di destra e di sinistra, tutti oramai etichettati con l’epiteto populista.

Nel dibattito pubblico quotidiano, populismo è pertanto spesso associato a questi nuovi attori politici non tradizionali e, a vario livello, anti-sistema.

Quarto errore: è errata l’equazione Demagogia uguale a populismo.

Anche quando un attore politico prova a ottenere il consenso dei cittadini con promesse difficilmente realizzabili (demagogia, appunto), non starebbe producendo del populismo.

Quindi, in sintesi, Ceccobelli vuol dire che né la personalizzazione, né l’adottare strategie Pop, né l’utilizzo della demagogia, hanno alcuna relazione sostanziale con il concetto di populismo.

Possono quindi essere “scientificamente” definite populiste unicamente quelle forze politiche che sviluppano un programma e messaggi nei quali il popolo (visto come una unità unica e indivisibile e portatore di valori positivi) viene opposto alle élite (politiche, economiche, finanziare, etc.) considerate come corrotte.

Ceccobelli, bravissimo, ha anche portato degli esempi…

In nessuno dei quattro casi qui sopra riportati, è presente un messaggio populista.

La partecipazione di Renzi ad Amici, l’intervista di Salvini su Oggi, oppure Enrico Rossi (il governatore della Toscana) che pubblica una foto sulla sua pagina Facebook mentre munge una mucca…

Queste sono una semplice espressione di Politica Pop (al riguardo, mi devo andare a leggere il libro di Gianpiero Mazzoleni e Anna Sfardini uscito nel 2009).

E non c’è alcun tipo di populismo nel post pubblicato sulla pagina Facebook del Movimento 5 Stelle, in cui è semplicemente presente una fortissima personalizzazione condita con una comunicazione pop, come testimoniato dalla presenza del cuoricino.

Viceversa, i quattro post Facebook seguenti, indicano quattro tipici esempi di populismo, secondo la letteratura scientifica.

Il post del Movimento 5 Stelle è populista, in quanto presenta un richiamo diretto ed esplicito alla volontà popolare da opporre a una non specificata élite, che non starebbe facendo gli interessi del popolo.

Il post della Lega Nord attacca apertamente le élite (in questo caso quelle politiche europee e finanziarie).

Nigel Farage, incarna la definizione di populismo parlando di popolo contrapposto alle élite ignoranti e corrotte.

Infine, il post di Salvini è populista, in quanto vede nell’ALTRO diverso da NOI, una potenziale minaccia alla presunta omogeneità del POPOLO che LUI intende rappresentare.

Per la letteratura scientifica diventa pertanto fondamentale non confondere i termini, come “personalizzazione“, “politica pop” e “populismo“, che denotano fenomeni completamente differenti.

La personalizzazione ha a che vedere con l’aumento della visibilità e della rilevanza dei leader a discapito dei partiti…

La politica pop con la commistione tra la politica e la cultura popolare…

Mentre il populismo è una ideologia con caratteristiche precise e ben definite, ossia (ribadiamolo ancora) il considerare “la società divisa in due gruppi omogenei, le persone oneste contro le élite corrotte”.

Delimitare chiaramente i confini che dividono i concetti di “politica pop” e “populismo” è uno degli aspetti più importanti per cercare di definire al meglio il populismo.

Ma il capolavoro di Ceccobelli è il grafico…

Come si vede nel grafico, ci sono quattro tipi di attori politici:

  1. populista-pop
  2. non populista-pop
  3. non populista-non pop
  4. populista-non pop.

Questo significa che non tutti i leader pop sono al contempo populisti, e viceversa.

Andiamo con gli esempi…

Matteo Renzi, Barack Obama e Justin Trudeau appartengono ad esempio al tipo 2, visto che sono forse tre dei leader contemporanei più pop, ma non sono associati dalla letteratura scientifica al concetto di populismo. Tutti e tre, sebbene con differenti modalità e intensità, ricorrono alle persone e alle vicissitudini concernenti la propria vita privata. Utilizzano e interagiscono con i media, le retoriche, gli attori stessi appartenenti al mondo delle celebrità della televisione, della musica, dello sport e del cinema. Oppure riproducono e interpretano gli stili di vita e la quotidianità dei cittadini, o gli usi e costumi e le pratiche dominanti della cultura popolare di riferimento. Renzi, Obama e Trudeau sono pertanto tre leader politici Pop ma non populisti, visto che nei loro programmi e messaggi, il popolo non viene idealizzato come una unità unica e indivisibile da opporre a élite corrotte e incapaci di risolvere i problemi dei cittadini.

Marine Le Pen e Alexis Tsipras sono invece considerati due esempi emblematici di leader populisti, ma non Pop (tipo 4).

Berlusconi, Grillo e Salvini appartengono invece al tipo 1, essendo tre leader sia Pop, sia populisti.

Infine, Massimo D’Alema, Angela Merkel e Francois Hollande sono tre tipici esempi di leader né Pop, né populisti (tipo 3).

 

Ceccobelli conclude scrivendo che populismo sia oramai un termine “perso” e “da buttare”.

Una parola incapace di descrivere con assoluta chiarezza alcun fenomeno politico, quindi inutile, se non addirittura controproducente.

Meno associamo leader come Salvini, Grillo, Iglesias, Tsipras, Farage, Le Pen o Trump al concetto di populismo, più, forse, saremo in grado di capirne il successo e soprattutto il significato storico e politico.

Starà alla comunità scientifica, agli studiosi di comunicazione e politica, trovare nuove terminologie e a offrirci nuovi strumenti per comprendere ed eventualmente difenderci.

 

7 Febbario 2017

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La Twitter Revolution non esiste?

Ci troviamo spesso ad avere a che fare con parole nuove, capaci di esprimere concetti che prima non conoscevamo.

Il termine post-verità (parola dell’anno per l’Oxford Dixionary) non è scappato fuori per caso.

L’elezione di Trump e la fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Euro, hanno portato moltissimi esperti ad affermare che sono cambiati i paradigmi, i filtri, i metodi con cui avviene la persuasione.

 

Un bellissimo articolo di Fabio Chiusi su L’Espresso del 27 novembre scorso, parla di una disciplina che sta vacillando, in quanto un evento ne ha appena riscritto i confini: l’evento è l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, mentre la disciplina è lo studio della propaganda.

L’articolo è ricco di citazioni, ad esempio Castronovo, docente della University of Wisconsin-Madison: “L’elezione di Trump ha cambiato il modo in cui pensavamo circolasse l’informazione, come le persone comunicano, ma anche come processano e diffondono la propaganda… è un drammatico campanello d’allarme per molti studiosi di comunicazione politica e retorica“.

Il mondo dei media è impegnato a chiedersi se Trump è alla Casa Bianca per colpa dei social network, delle notizie false che vi circolano, attraverso la viralità di video e “memi“, portandoci a quella cosa chiamata post-verità.

Ecco una efficace spiegazione di post-verità: quando i fatti oggettivi contribuiscono meno alla formazione dell’opinione pubblica rispetto agli appelli emotivi e alle credenze personali.

Il termine post-truth si dice che sia apparso la prima volta nel 1992 sul magazine The Nation, in cui il drammaturgo serbo-americano Steve Tesich faceva riferimento allo scandalo Iran-Contra di qualche anno prima e ai traffici illegali di armi tra gli Stati Uniti e l’Iran.

Facciamo due esempi di post-verità, legati alle presidenziali americane.

I social network ad un certo punto hanno diffuso la notizia che Hillary Clinton avesse venduto le armi all’Isis. La notizia riportava sedicenti (false) fonti da Wikileaks (i famosi file resi illegalmente ufficiali da Assange).

Sempre nei confronti di Hillary Clinton, è stata clamorosa la Cospirazione del Ping Pong Comet, la pizzeria di Washington che, secondo una fake news, era al centro di una rete internazionale di pedofilia riconducibile alla candidata repubblicana e al suo ex capo campagna John Podesta. Il loro scambio di email con il proprietario della pizzeria per organizzare una raccolta fondi, diventò nel giro di pochi giorni la prova di un’organizzazione criminale con risvolti quasi satanisti. E per poco ci scappava una strage (un giovane padre giustiziere, è entrato un giorno in pizzeria, sparando armato di mitra).

Bene, ecco cosa si stanno chiedendo gli studiosi di comunicazione: quali conseguenze hanno generato queste false informazioni? Quanto sono state strategiche a favore di Trump? Quale può essere una strategia efficace per contrastare fake del genere da parte di chi li subisce?

Un altro probabile esempio attuale?

La diffusione della meningite è una causa delle migrazioni delle popolazioni africane…

Il rapporto tra comunicazione, strategie e falsi contenuti è sempre stato alla base del lavoro di chi si occupa di propaganda.

Harold Lasswell già nel 1941, parlava di un mondo in cui l’opinione pubblica affronta con sospetto ogni fonte di informazione, convincendosi che non ha senso cercare il vero negli affari pubblici.

Negli anni 20, era stato Walter Lippmann, giornalista e poi padre degli studi moderni sulla propaganda, a coniare la definizione fabbricare il consenso.

In sintesi, ecco come la pensava Lippmann… ed è perfettamente attuale oggi:

  • siamo nell’era del sovraccarico informativo e dell’economia dell’attenzione.
  • nel mondo ci sono troppe informazioni e l’uomo vi fa fronte, per natura, attraverso i pregiudizi
  • ma poi ci pensano i media a dare una forma a informazioni e contenuti.

 

Quindi sono i media a colmare la distanza necessaria tra l’evento e il pubblico… sono i media che rendono possibile la propaganda:

  • i media svolgono una funzione di filtro.

 

Cos’è dunque successo con Trump?

Fabio Chiusi cita il filosofo sloveno Slavoj Žižek che afferma: “La fabbrica del consenso si è spezzata“.

Anche qui, ecco una sintesi del pensiero di Žižek:

  • nel nostro ecosistema informativo, i media perdono autorevolezza
  • chiunque può diventare un media grazie a Facebook, Twitter, YouTube…
  • quindi la distanza tra l’evento e il pubblico si azzera.

Ovvero, il filtro dei media non serve più:

  • ciascuno ha il proprio filtro, che si nasconde sotto forma di un algoritmo, vuoi sia di Google, o di Facebook, etc…

Qual è quindi oggi lo scenario?

Ora gli Stati Uniti si trovano a un momento importante, in cui la macchina che costruisce il consenso si è rotta:

  • rotti i partiti tradizionali, di cui Trump rappresenta la negazione…
  • rotti i media, che lui e i suoi detestano…
  • rotte le rappresentanze sociali… rotto il futuro… rotta la democrazia, che non interessa a oltre due terzi dei Millennials americani.

 

L’elezione di Trump ci ha ancora una volta mostrato che esiste una realtà diversa da quella che ci mostrano i media.

Questa realtà a volte riaffiora.

Qualcuno si ricorda della maggioranza silenziosa che fece vincere le elezioni a Nixon?

Bene, quella realtà Trump l’ha fatta uscire fuori ancora una volta.

Importante quello che dice Mike Cernovich, il maestro dei memi pro Trump: “Se tutto è narrazione, allora c’è bisogno di alternative alla narrazione dominante“.

L’articolo su L’Espresso è proprio interessante…

Chiusi scrive che la propaganda, fino a oggi, non era materia di scienziati, ma di artigiani.

Ma oggi viviamo nell’era dei Big Data e della profilazione totale e quando parliamo di propaganda, sempre più intendiamo numeri, correlazioni, dati.

Si contano gli accessi, i like, le condivisioni, le pagine viste…

E questo è un lavoro di scienziati…

 

Ma ragionando solo di numeri, si può rischiare di sbagliare qualche analisi.

Grazie alla Primavera Araba del 2011 (definita da più parti come la Twitter Revolution), i social media venivano generalmente considerati come promotori di democrazia…

Quindi non di nuovi autoritarismi…

E qui l’articolo di Chiusi pone una domanda interessantissima: adesso come la mettiamo con Trump? Com’è quindi possibile che la Twitter Revolution abbia premiato proprio lui?

La conclusione di Chiusi non mi trova d’accordo, in quanto afferma che entrambe le retoriche sono fallaci.

Quindi, secondo lui, è falso che 5 anni fa sia stato Twitter a provocare rivolte democratiche, così come è falso oggi affermarlo per Trump.

Io penso che i social network siano uno strumento e vince chi meglio li usa.

È chiaro che i contenuti populisti nei social network trovano un’autostrada… ma non solo quelli, come ha appunto dimostrato la Primavera Araba.

Che i social network siano uno strumento per il populismo è una verità, ma è un’affermazione assai limitata… e anch’essa populista.

11 gennaio 2017

 

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