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La Grande Dimissione e il lavoro Hop

Il lavoro, un fenomeno che da sempre accompagna gli esseri umani come una condanna, nel XXI secolo potrà finalmente diventare una gioia creativa. 

L’ha detto il sociologo Mimmo De Masi, scomparso pochi mesi fa.
Con questo incipit, inizia un libro molto interessante, L’era del lavoro libero, scritto da un ottimo Francesco Delzio, che ha avuto la capacità di creare una sintesi di buona parte delle cose che ho letto, ascoltato e di cui mi sono documentato in questi anni sulla mutazione in atto del mondo del lavoro e dei riflessi che sta avendo e avrà sulle nuove generazioni.

Delzio parte indicando due nuove variabili, la great resignation e il job hopping, entrambe accomunate da una novità assoluta: queste variabili non nascono più dalle strategie aziendali, quindi dalla domanda di lavoro, ma hanno origine “dal basso”, ovvero dall’offerta. 

E più precisamente dal comportamento imprevisto e imprevedibile dei lavoratori delle Generazioni Millennials e Zeta.

La prima variabile è la great resignation, ovvero la “grande dimissione”.

Delzio in tutto il libro snocciola dati esemplari: nei primi 9 mesi del 2022, ben 1 milione 660 mila italiani si sono dimessi volontariamente dal posto di lavoro, in aumento del 22% rispetto all’analogo periodo del 2021, anno in cui le dimissioni volontarie dal lavoro hanno superato quota 2 milioni. E secondo l’Associazione Italiana dei Direttori del Personale, il fenomeno delle dimissioni volontarie dei giovani riguarda oggi il 60% delle imprese del nostro Paese.

Non ce n’eravamo accorti…ma è da tempo che i dipendenti hanno iniziato a scegliersi il datore di lavoro. 

Ma quali sono le cause del fenomeno?

Qui Delzio introduce un altro nuovo termine (almeno per me) che è Worklife Balance, ovvero l’equilibrio tra lavoro e vita, affermando che è molto cresciuto il peso attribuito da parte dei lavoratori alla libertà e alla flessibilità nella gestione dei propri tempi di vita. E al tempo stesso il lavoro non viene più percepito soltanto come mezzo di sostentamento e fonte di uno status sociale, ma anche come strumento di un più ampio progetto personale. Essere gratificati da ciò che si fa e da come lo si fa, coltivare le proprie passioni, mettere in campo la propria creatività, valorizzare la vita privata sono diventate esigenze sempre più forti. Prioritarie. Non più negoziabili.

Sto esattamente riportando quello che è scritto nel testo di Delzio, il quale a un certo punto cita pure Romano Prodi: «La realizzazione di sé stessi non viene più ricercata nel lavoro, ma nell’organizzazione della propria vita, perché lo stipendio, la carriera e la stabilità del rapporto di lavoro vengono messi in secondo piano di fronte all’esigenza più personale di essere padroni della propria quotidianità».

Quindi dobbiamo smettere di stupirci verso chi lascia il proprio posto di lavoro perché non si ritrova più un senso in ciò che si fa.

La seconda variabile è il cosiddetto job hopping, fenomeno molto radicato negli USA.

Significa “saltare da un lavoro a un altro”, prerogativa soprattutto dei Millennials, che lo utilizzano per assicurarsi stipendi più alti e un posto di lavoro con un miglior worklife balance.

Certamente un job hopper potrebbe essere giudicato un lavoratore poco affidabile, pronto ad andarsene a fronte di una più vantaggiosa offerta di lavoro, ma il fenomeno è comunque inarrestabile. 

Great resignation, job hopping, nuova visione del lavoro, worklife balance, mercato del lavoro liquido…

La domanda è: politica e sindacati in Italia e nel mondo se ne sono accorti?
Ovviamente parliamo di quella parte del mondo che può permettersi di mettere in priorità questi temi.

Sta di fatto che oggi la maggior parte dei responsabili delle risorse umane di multinazionali e grandi aziende afferma che attrarre talenti è più difficile rispetto al periodo pre-pandemia e che le aziende che offrono opzioni di lavoro ibrido ai propri dipendenti sono avvantaggiate nella caccia ai talenti. 

I nati tra il 1997 e il 2012, quelli della Generazione Z, entro il 2025 rappresenteranno circa il 30% della forza lavoro globale e cambieranno radicalmente l’ambiente di lavoro.

Quelli della GenZ sono abituati a vivere con gli algoritmi di Meta, Netflix, Spotify, Amazon e sanno esattamente cosa vogliono guardare, ascoltare o acquistare: se lo aspettano non solo come consumatori, ma anche sul posto di lavoro. Quindi: flessibilità sul luogo e gli orari di lavoro, velocità dei processi decisionali, formazione continua…

Delzio lancia un richiamo ai datori di lavoro che dovrebbero riconoscere queste (legittime) aspettative. 

Nel frattempo, nei colloqui di lavoro i giovani esprimono nuove e diverse priorità e aspettative: stipendio e possibilità di carriera non fanno di per sé la differenza. 

In sostanza, scrive sempre Delzio, la Generazione Z si aspetta e cerca non soltanto un lavoro, ma qualcosa di più coinvolgente: un senso di appartenenza, una missione condivisa, un set di valori, un ruolo sociale d’impresa nei quali potersi riconoscere come persona.

A questo punto entra in gioco un nuovo termine: quiet quitting.

Quiet quitting, lavorare senza stressarsi, «la pratica di non lavorare più di quanto si è contrattualmente obbligati a fare, soprattutto per dedicare più tempo alle attività personali; oppure la pratica di lavorare poco o nulla, pur essendo presenti sul posto di lavoro».

In parole povere, meno coinvolti… 

Questo scenario che presenta la GenX è una sorta di banco di prova per il mondo del lavoro, che presenta ulteriori sfide, probabilmente ancor più complesse.

Basti pensare al rischio bomba sociale che si sta affacciando, dal momento in cui gli assegni pensionistici hanno superato gli stipendi addirittura di 1,2 milioni di unità (da un report della CGIA di Mestre, sulla base di dati ISTAT e INPS, nel 2021 sono state erogate 22 milioni e 759 mila pensioni contro 22 milioni 554 mila stipendi).

Soluzioni vanno trovate al più presto, ma il processo ha bisogno di tanta, tanta tolleranza.

Dobbiamo tutti essere coscienti che prima di giudicare un comportamento o un fenomeno sociale, occorre entrare nella prospettiva che muove la coscienza dell’altro.

Bisogna comunque muoversi il prima possibile. Non possiamo rimanere inermi davanti all’attuale scenario, per cui per i datori di lavoro il problema non è più la preparazione inadeguata, ma addirittura la mancanza di candidati.


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