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La banalità salverà il mondo

La guerra e la pandemia stanno contribuendo a restituirci un’idea antica della morte.

Da molti decenni il benessere, le più allungate aspettative di vita e la tecnologia hanno fatto sì che le paure quotidiane risultassero altre, quali l’invecchiamento, l’imperfezione fisica, l’inadeguatezza sociale e soprattutto la paura di condurre un’esistenza incompiuta, inadeguata, non all’altezza.

Quindi le problematiche legate alla frustrazione hanno, in noi essere umani moderni, rubato il trono alla morte e alla fame. Questo concetto l’ha bene espresso Riccardo Falcinelli, uno dei più apprezzati visual designer.

Le sue considerazioni sul tema dell’identità sono veramente interessanti.

In altre epoche, nelle relazioni umane contavano soprattutto le pratiche, quindi i ruoli, e non le identità. Un re era un re perché svolgeva quel ruolo. Idem un contadino.

Oggi i nostri sforzi vanno nella direzione di far coincidere quello che vogliamo essere con quello che non riusciamo a fare e a diventare.

Quindi spesso viviamo di apparenza.

Tutto questo succede perché ci impaurisce la banalità.Ci teniamo troppo a essere unici e speciali.

Ma cos’è la banalità?

Stefano Bartezzaghi, il semiologo, le ha dedicato un libro: una figata.

Il termine banalità viene dalla radice “ban” che significa villaggio.

Banale quindi era ciò che tutto il villaggio già sapeva.

Per me, la banalità acquisisce un fascino enorme nel momento che diventa strumento di unicità.Essere banali in un mondo di fenomeni può produrre esiti molto interessanti e piacevoli.

Bartezzaghi è illuminante quando racconta di Papa Francesco e della sua prima apparizione dalla finestra di Piazza San Pietro.

Ricordate quale fu la prima parola che disse?

È stato fantastico: disse “Buonasera”.

Semplicemente Buonasera, accompagnato da una pausa.Ci può essere qualcosa di più  banale?

Eppure… 

Quel “buonasera” ha immediatamente posizionato il personaggio.

E con il tempo, ogni suo gesto ha mostrato una straordinaria coerenza verso la semplicità (quelli bravi direbbero orizzontalità) di quel saluto.

Sempre in merito all’identità, ho un’altra sollecitazione.

Ne La Grande Bellezza, Sorrentino ci ha regalato diversi colpi di genio. Uno di questi è stato contestualizzare la clinica estetica come un luogo di culto religioso, dove i demoni dell’invecchiamento e dell’inadeguatezza estetica venivano esorcizzati dal grande chirurgo, un immenso Massimo Popolizio.

In quelle scene, è parso evidente come l’identità non sia qualcosa che si fa o si è, ma è qualcosa che si consuma.

Sempre citando Falcinelli, addirittura il sesso è strumento del “si è” a discapito del “si fa“.

Insomma… ci nutriamo di identità, ogni giorno compriamo identità.

Facciamoci caso: ogni volta che vediamo un amico cinquantenne con un nuovo “atteggiamento trasandato sul selvaggio”, spesso la causa è la sua nuova Harley Davidson: dal momento che ha acquistato quella “merce”, ha assunto l’identità dell’Harleysta.

Sto banalizzando? Certamente.

La moda questi meccanismi li ha colti molto bene.

Ad esempio, la moda dei ragazzi che indossano i pantaloni senza cintura che scendono mostrando le mutande, sono l’effetto di una necessità identitaria.

Il conformismo di mostrarsi disobbedienti, trova nei carcerati un simbolo di ribellione.

I carcerati, come noto, non possono indossare la cintura, quindi mostrarsi con i pantaloni calati significa lanciare il segnale che si appartiene a quel mondo lì.

Quindi attenzione: vestito così ti comunico che sono ribelle e cattivo… perché io  ho bisogno di essere ribelle e cattivo: non vorrai mica che mi limiti a essere banale? 

Idem per i tatuaggi.

Non c’è  niente da fare: l’identità è prodotto.

E come spesso accade, sono le merci a salvarci la vita.

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