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Hipsters, Cosacchi e falsi miti

Era il 1975 e i Supertramp esplosero nelle hit parade di tutto il Pianeta.

Ricordate cosa cantavano? “Quand’ero giovane, la vita mi sembrava meravigliosa, magica… poi mi hanno insegnato a essere sensato, logico, responsabile, pratico e mi hanno mostrato un mondo dove sarei stato affidabile, intellettuale, clinico, cinico. A volte quando tutti dormono, da uomo semplice mi tormenta una domanda: vi prego, ditemi cosa abbiamo imparato. So che sembra assurdo, ma ditemi chi sono“.

The Logical Song” ha fatto parte della colonna sonora di una generazione che comunque aveva dei punti fermi, se non fermissimi.

Ricordo che ad un esame di Storia della Sociologia, che tenni nel 1980, il Professor Braghin mi fece una domanda sul Marxismo, sottolineando in premessa, come l’Unione Sovietica fosse una pentola a pressione.

Usciti dall’aula, con gli altri studenti si provò a ragionare sulla presunta follia di quell’affermazione: una pentola a pressione? L’Urss?!?

Noi avevamo chiaro (lo credevamo) di cosa fosse la Destra e la Sinistra, Ronald Reagan e Breznev, Berlino Est e Berlino Ovest, i Cattolici e gli atei… Su certe cose, vedevamo poche pentole a pressione. Eppure sappiamo tutti come è andata… e non solo in Russia.

Oggi è saltato tutto.

Viviamo la società liquida, dove abbiamo dovuto in fretta imparare a nuotare e navigare.

Ditemi chi sono” quindi cantavano i Supertramp.

L’identità dell’individuo non è certo tema nuovo.

Nelle caverne abitate dai primitivi, si sono trovate numerose tracce di impronte di mani. Citando Duccio Canestrini: “Cosa c’è di più individuale di una manata?“.

E questo vale più che mai oggi, nell’era del riconoscimento vocale, o dello studio del DNA, dove basta una traccia microscopica per sapere tutto di te.

Nella nostra ricerca individuale, abbiamo spesso trovato rifugio nello sguardo verso il passato, aggrappandoci alle tradizioni, agli antichi valori.

Come ha detto il grande Bernard Cova, il progresso ci ha portato dove volevamo arrivare per poi accorgerci che abbiamo bisogno anche di altro, che magari abbiamo perso per strada.

Quindi ecco il fenomeno del ri-radicamento, che comporta l’andare a ritroso, a rintracciare punti fermi a cui attaccarci. E pur di trovare qualcosa a noi utile, a volte le tradizioni addirittura ce le inventiamo.

C’è un libro che non ho letto, Eric HobsbawmL’invenzione della tradizione“, che sento spesso citare e che in sintesi (fonte Wikipedia) ci parla di tradizioni inventate come “l’elaborazione di una risposta a tempi di crisi, a epoche di rapido cambiamento sociale, alla necessità di dover fronteggiare nuove situazioni“. 

Questo aggrapparci al passato, ha a volte dei riscontri abbastanza buffi.

Un esempio illuminante l’ho ascoltato da Andrea Pollarini.

L’Aprilia ha lanciato anni fa l’Habana, lo scooter con un design spiccatamente retrò, quasi fosse il recupero della scocca di un motociclo tipico cubano degli anni 50… La cosa strana è che a Cuba non sono mai esistiti quel genere di motocicli. Ciò non toglie che il consumatore moderno abbia bisogno di immaginare che invece fosse così.

Barilla l’ha capito benissimo da tempo: nel surreale contesto che vede Antonio Banderas nei panni dello chef fornaio/pasticcere di campagna, il messaggio che Mulino Bianco vuol comunicare è che tutte le ricette sono frutto di un recupero di antiche tradizioni a rischio di sparizione.

Se facessimo una ricerca, potremmo scoprire che alcuni prodotti del Mulino Bianco non sono affatto legati alla tradizione… ma ciò non importerebbe più di tanto: quello che per il marketing conta è che l’idea possa reggere nell’immaginario collettivo.

Altro esempio, i Barbershop.

Riprendono in tutto e per tutto l’estetica delle antiche botteghe del barbiere… ma i saloni dei barbieri, una volta non erano così. Entrare in un Barbershop oggi significa vivere un’esperienza emotiva dal gusto retrò: oltre all’esigenza di aggiustarsi la barba, è questo che cercano i cosiddetti “nuovi hipster“, dando così forza alla loro identità condizionata dalle estetiche di moda.

Ok… ci troviamo quindi a volte a trovare consolazione in certezze inesatte: è un problema gravissimo?

Non saprei, ma ciò non toglie che ogni tanto ci farebbe bene dissacrare qualche mito, un po’ come ama fare il filosofo Galimberti.

Non certamente per il semplice gusto di polemizzare, ma giusto per dare un po’ più di credibilità e chance alla nostra contemporaneità.

Mi viene in mente Madagascar, il film di animazione in cui i pinguini riescono a scappare dalla zoo per tornare nella loro terra di origine, per poi, dopo varie peripezie, arrivare finalmente in Antartide… e scoprire che lì è uno schifo. Quindi abbandonano il freddo e il gelo per ritrovarsi a surfare alle Hawaii.

Sempre a proposito di miti da sfatare, tirerei in ballo i Cosacchi.

I Cosacchi sono quella popolazione (non è un’etnia, ma un popolazione formatasi da bande di mercenari meno di 2.000 anni fa) che, per vicissitudini storiche, si è trovata a far parte prima del grande impero sotto la Zar russo, poi sotto il comunismo di Lenin e Stalin.

Nel libro del mio illustre concittadino Stefano PivatoLe favole e la politica“, si ricorda come negli anni della Guerra Fredda (la più grande fiction della storia), era famosa la frase “Se passa il Comunismo, ci troveremo i Cosacchi ad abbeverare i loro cavalli nella Fontana di Trevi“. La metafora è sicuramente azzeccata sul piano della comunicazione, il messaggio passa alla grande: la scuola Vaticana è maestra da millenni.

La cosa curiosa che rileva Pivato è che i Cosacchi sono sempre stati nemici della Russia Comunista e sono stati vittime degli stermini etnici stalinisti. Hanno addirittura stretto alleanza con Hitler nel tentativo di invasione nazista in Russia. Malgrado tutto questo, il mito dei Cosacchi è stato usato da Stalin per alimentare il mito del coraggio e il mito rurale della grande Russia.

Quindi in sintesi, “mentre il regime sovietico procedeva alla loro eliminazione, sul piano propagandistico continuava a esaltarne il mito romantico“.

Fortunatamente la Storia non perdona.

La questione però sta nel come noi dobbiamo difenderci da questa confusione, dai falsi miti, dalle tradizioni che non stanno in piedi, etc.

Da parte mia ho cominciato da tempo a chiedermi se siamo sicuri di dover rimpiangere il passato.

E poi ha acquisito la consapevolezza che sono quasi sempre le certezze, e non le incertezze, a generare i mostri.

I mostri delle certezze…

Diventa facile in questo discorso identificare gli Hitler, gli Stalin, le ragioni della razza, i credo religiosi, etc.

Risulta ben più difficile scovare le certezze farlocche su cui ci radichiamo nella quotidianità, che non ci permettono a volte né di ascoltare gli altri, né di allungare la Visione, né di crescere per il bene di tutti.

Come spesso succede, le parole più efficaci le ha Umberto Galimberti… Dobbiamo risvegliarci dalla quiete apparente delle nostre idee mitizzate, perché molte sofferenze, molti disturbi, molti malesseri nascono proprio dalle idee che, comodamente accovacciate nella pigrizia del nostro pensiero, non ci consentono più di comprendere il mondo in cui viviamo“.

 

20 Ottobre 2016

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